Umbria nera. Il primo atto della giunta leghista: negare l’accesso all’aborto.

È notizia di queste ore la decisione della giunta regionale umbra, guidata da Donatella Tesei della Lega, governatrice vicina ad organizzazioni antiabortiste e ultracattoliche, di vietare del tutto gli aborti farmacologici e in day hospital, previsti dalla legge 194/1978.
La giustificazione addotta è quella di “non lasciare completamente sola” la donna anche di fronte a “eventuali rischi”, ma già da qualche settimana i partiti d’opposizione e diverse associazioni hanno denunciato come in Umbria oggi sembra esserci un “percorso ad ostacoli per ottenere l’azione farmacologica” e un “gravissimo ritorno indietro, che mette in pericolo il diritto alla salute e all’autodeterminazione delle donne”: del resto, il solo ricovero ospedaliero per effettuare un’IVG pone, al momento, non pochi problemi e rischi.
Per queste ragioni ho indirizzato una lettera al Ministro della Salute per chiedere un atto ispettivo del Ministero, volto a tutelare il pieno rispetto di una legge dello Stato e i diritti delle donne, sollecitandolo anche a valutare la possibilità di potenziare il ricorso all’aborto farmacologico.

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TESTO DELLA LETTERA

Gentile Signor Ministro,

lo stato di emergenza degli scorsi mesi, caratterizzato da provvedimenti generali volti al contenimento dell’epidemia da Sars-Cov-2 nelle strutture sanitarie, ha avuto tra le sue conseguenze più deleterie la sospensione, o addirittura l’interruzione, in regioni come la Lombardia gravemente interessate dall’epidemia, degli interventi di interruzione volontaria di gravidanza.

Già a partire dal mese di marzo le organizzazioni attive a tutela dei diritti delle donne denunciavano le sospensioni in molti ospedali pubblici: denunce al centro di un’interrogazione che il sottoscritto Le ha rivolto, senza ottenere risposta alcuna, già nel mese di aprile (Interrogazione a risposta scritta 4-05126)

Sara Martelli, coordinatrice della campagna «Aborto al sicuro» in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano in data 26 marzo 2020, denunciava: «Il servizio IVG è sospeso all’Ospedale Sacco, al Buzzi, e parzialmente al Niguarda. Al San Carlo hanno sospeso le IVG con metodo farmacologico e molti reparti ora funzionanti a Milano stanno dedicando posti letto al COVID-19. Ci sono altri ospedali in Lombardia che hanno dovuto chiudere i propri ambulatori IVG e quasi metà dei consultori sono chiusi a Milano. La situazione cambia continuamente ed è quasi impossibile raggiungere informazioni».

Nell’edizione de il Manifesto di venerdì 27 marzo 2020, la dottoressa Mirella Parachini, ginecologa dell’ospedale San Filippo Neri e del Centro per la salute della donna Sant’Anna di Roma, cofondatrice di Amica (Medici italiani contraccezione e aborto) e vicesegretario dell’Associazione Luca Coscioni, appartenente alla rete «Pro-choice, affermava: «pur di ridurre il numero di accessi in ospedale, in modo da abbassare al massimo il rischio contagio, alcuni ospedali preferiscono scegliere le tecniche chirurgiche anziché quelle farmacologiche. Perché con la chirurgia tutto si risolve in un solo ricovero, mentre con i farmaci la paziente è costretta teoricamente ad un ricovero di tre giorni e comunque a tre accessi in ospedale».

Secondo i dati forniti dall’ultima relazione del Ministro della salute pro tempore sullo stato di attuazione della legge concernente norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, trasmessa il 31 dicembre 2018, in Italia la percentuale di aborti pervia farmacologica, rispetto al totale delle interruzioni volontarie è del 17,8 per cento in aumento rispetto agli anni precedenti, ma nettamente inferiore alle percentuali di altri Paesi dell’Unione europea come la Francia (67 per cento).

Da più fronti, negli ultimi anni e con maggiore insistenza nelle ultime settimane, è emersa la richiesta di de-ospedalizzare il ricorso all’aborto farmacologico fino alla nona settimana, non solo per le interruzioni volontarie di gravidanza, ma anche per gli aborti interni, laddove prolungare il limite temporale ridurrebbe le procedure chirurgiche, con conseguente utilizzo delle sale operatorie e del personale, compresi gli anestesisti, come sostiene anche l’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani.

La legge 22 maggio 1978, n. 194, all’articolo 8, prevede la possibilità che l’interruzione della gravidanza sia praticata anche al di fuori degli ospedali generali, presso i consultori, gli ambulatori specializzati, i poliambulatori funzionalmente connessi con le strutture ospedaliere: pertanto, al fine di ridurre gli accessi in ospedale e il rischio di contagio da coronavirus, sarebbe opportuno valutare l’opportunità di ricorrere ad alternative valide rispetto al ricovero ospedaliero, come l’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica, consentendo di svolgere alcune fasi della procedura anche presso consultori e ambulatori e fino alla nona settimana di gestazione.

Nonostante ciò, si assiste a deliberazioni in senso contrario: è notizia di pochi giorni fa, infatti, la decisione della giunta regionale umbra, guidata da una governatrice vicina ad organizzazioni antiabortiste e ultracattoliche, di vietare del tutto gli aborti farmacologici e in day hospital, previsti dalla legge 194/1978.

La giustificazione addotta è quella di “non lasciare completamente sola” la donna anche di fronte a “eventuali rischi”, ma già da qualche settimana i partiti d’opposizione e diverse associazioni hanno denunciato come in Umbria oggi sembra esserci un “percorso ad ostacoli per ottenere l’azione farmacologica” e un “gravissimo ritorno indietro, che mette in pericolo il diritto alla salute e all’autodeterminazione delle donne”: del resto, il solo ricovero ospedaliero per effettuare un’IVG pone, al momento, non pochi problemi e rischi.

Per queste ragioni, mi rivolgo a Lei, Signor Ministro, per valutare l’opportunità di verificare, per mezzo degli strumenti ispettivi di competenza del Suo dicastero, la corretta applicazione della legge 194/1978 presso le strutture sanitarie della Regione Umbria e per chiederLe di valutare l’opportunità di promuovere l’accesso alle procedure farmacologiche deospedalizzate, le uniche in grado di tutelare pienamente il diritto alla salute e la sicurezza di tutte le donne che decidono di accedere all’IVG.

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